Publio Ovidio Nasone
(a cura della Classe II A L – Tedesco)
in occasione della lettura integrale del libro IV dei Fasti
Redazione: Ludovica Mancusi – Christian Tartaglia
Vita
Nasce il 20 marzo del 43 a.C. a Sulmona da una famiglia facoltosa, appartenente alla classe equestre. A 12 anni si reca a Roma con il fratello Lucio, poi morto prematuramente, per completare gli studi. Frequenta le lezioni di grammatica e retorica dei più insigni maestri della capitale, in particolare Marco Aurelio Fusco e Marco Porcio Latrone. Il padre lo vorrebbe oratore, ma Ovidio si sente già più portato per la poesia. Seneca il Vecchio ricorda che Ovidio declamava raramente, per lo più suasorie. Più tardi Ovidio si reca, com’era costume ormai da un secolo, ad Atene, visitando durante il viaggio di ritorno le città dell’Asia Minore; va anche in Egitto e per un anno soggiorna in Sicilia.
Tornato a Roma, Ovidio intraprende la carriera pubblica, senza distinguersi per zelo o importanza di honores. È uno dei decemviri stilibus iudicandis e dei tresviri, funzionari, forse, di polizia giudiziaria. Non aspira poi a far parte del Senato, pago della propria dignità equestre; contrariamente al fratello e contro la volontà di suo padre si dedica agli studi letterari. Inizialmente ha contatti con il circolo di Messalla Corvino (filo-repubblicano), che lo stimola a dedicarsi alle lettere; più tardi invece entra nel circolo di Mecenate (filo-augusteo), conoscendo i più importanti poeti del tempo: Orazio, Properzio e, per poco tempo, Virgilio. Tale ambiente lo aiuta a ritrovare la serenità e l’incentivo necessario per esprimersi e produrre. Siamo nel periodo storico della pax augustea e, nonostante la politica di recupero della morale tradizionale voluta dallo stesso Ottaviano, i costumi di Roma tendono a rilassarsi, c’è una concezione più libera e rilassata della morale dovuta all’influenza ellenistica.
Ovidio è il più giovane dei poeti elegiaci e si differenzia in gran parte da loro. Se essi rifiutavano il mos maiorum ma ne desideravano i benefici, Ovidio rifiuta questa contraddizione e il mos in toto. Per lui si può parlare anche di relativismo, poiché rifiuta i valori fissi e rigidi della vecchia società romana per aprirsi alle mode del tempo, cercando di assecondare il gusto volubile del pubblico.
Ovidio si sposa per tre volte: nei primi due casi, divorzia presto, il terzo matrimonio è invece il più significativo. Delle prime due mogli non si sa nulla, tranne che da una di loro nasce la figlia Ovidia, a sua volta scrittrice colta. Il terzo matrimonio avviene con Fabia, appartenente all’omonima gens, vedova con una figlia e fedele consorte nella gioia e nel dolore, della quale il poeta, nelle sue opere, conserva un ricordo commosso.
Gran parte delle informazioni sulla sua vita, sono racchiuse nel II libro dei Tristia (una sola elegia autobiografica di 578 versi) che scrisse negli ultimi anni della sua vita, quando si trovò confinato a Tomi, sul Mar Nero, per ordine di Augusto. Venne relegato, e non esiliato, a causa di un error da lui commesso, di cui noi non conosciamo con certezza le dinamiche. Si dice che venne confinato perché coinvolto in qualche modo nell’adulterio di Giulia Minore, nipote di Augusto, con Decimo Giunio Silano, ma forse anche la sua fama di poeta erotico alla moda deve aver giocato un ruolo non secondario nella vicenda. Senza poter tornare nell’amata Roma, il poeta si spegnerà a Tomi nel 17 o 18 d.C..
Opere
L’esordio poetico di Ovidio è costituito dagli Amores, che si articolano in tre libri contenenti quarantanove elegie composte tra il 23 e il 14 a.C.. Originariamente in cinque libri, l’opera viene pubblicata per la prima volta intorno al 14 a.C., ma la versione a noi pervenuta, in tre libri, è datata intorno all’anno 1 d.C.. Gli Amores sono percorsi, al loro interno, da una dicotomia: da un lato, è presente nella silloge una certa convenzionalità di temi e situazioni legati all’amore per la propria donna; dall’altra, però, è del tutto nuovo l’atteggiamento dell’amante, che affronta la materia in modo spesso giocoso e si pone ironicamente nei confronti della propria esperienza. La donna amata, Corinna, è una figura evanescente, cui il poeta è legato da una devozione meno incrollabile di quella di Catullo per Lesbia o di Properzio per la sua Cinzia. Ed è questa la scommessa vinta da Ovidio: l’autore, ponendosi in modo del tutto originale nei confronti di una tradizione di cui è chiaramente debitore, innova i caratteri dell’elegia erotica.
Contemporanea agli Amores è considerata la prima sezione delle Heroides, con cui Ovidio passò dall’elegia erotico-soggettiva a quella erotico-mitologica, introducendo un genere della cui originalità andò sempre fiero: quello delle fantastiche 21 lettere poetiche di argomento amoroso. Nelle prime 15 lettere eroine del mito si rivolgono ai propri amanti o mariti: per esempio Penelope a Ulisse, Fedra a Ippolito, Didone ad Enea. Nelle ultime 6, composte tra il 4 e l’8 d.C., tre innamorati (Paride, Leandro e Aconzio) scrivono ciascuno una lettera alle rispettive amanti (Elena, Ero e Cidippe) e ne ricevono risposta. Nonostante la novità, l’opera risente di una certa monotonia soprattutto nella prima sezione, in cui prevale il modello del lamento della donna lontana o abbandonata dall’amato.
A cavallo del I sec. a.C. e del I d.C Ovidio pubblica una delle sue opere più note al pubblico, l’Ars amatoria, suddivisa in tre libri in distici elegiaci, in cui proponendosi come praeceptor amoris dà consigli sulle tecniche di seduzione da usare nel bel mondo. Nell’opera raccomanda, inoltre, di non innamorarsi e di vivere l’amore come un gioco. l primi due libri sono rivolti a un pubblico maschile, e trattano il tema della conquista della donna amata e le metodologie per mantenerne vivo l’amore; il terzo libro, invece, di stesura successiva, è rivolto a un pubblico femminile, sviluppando i medesimi argomenti a parti ribaltate. In maniera ironica e giocosa l’Ars ovidiana si riallaccia alla tradizione elegiaca romana (Catullo, Tibullo, Properzio), svuotandola, però, di ogni tensione tra otium letterario e amoroso e negotium politico e civile, come ben dimostrano le due operette didascaliche ad essa legate: i Remedia amoris su come guarire dalla passione amorosa, cosa impensabile per i poeti elegiaci precedenti, e i Medicamina faciei femineae, trattatello di cosmetica.
In età matura (2-8 d.C.) Ovidio scrive un poema epico-mitologico in esametri, Metamorphoseon libri XV, che tratta in quasi 15.000 versi un gran numero di miti caratterizzati sempre dal tema della trasformazione di un essere umano in animale, in pianta, in statua o in altra forma, il tutto descritto sin nei più minuti particolari con prodigiosa abilità versificatoria. A suggello filosofico dell’insieme il lungo discorso di Pitagora nel libro XV indica proprio nel mutamento la legge che regola l’universo. Con quest’opera l’autore cerca di rispondere alle richieste della politica culturale augustea senza tradire la propria fedeltà ai modelli della docta poesis ellenistica e della poesia erotica, come dimostrano sia la scelta del poema collettivo, in cui a imitazione della Teogonia esiodea una serie di storie indipendenti sono accomunate da uno stesso tema, sia la prevalenza di miti d’argomento amoroso.
Nel periodo trascorso a Tomi (a partire dall’8 d.C.), Ovidio compone i cinque libri dei Tristia, in cui descrive la penosa condizione in cui si trova in seguito alla condanna alla relegazione. Il metro scelto è il distico elegiaco, anche perché il poeta intende rifarsi alla tradizionale identificazione dell’elegia come genere deputato a esprimere il lamento, la sofferenza. Per il timore che i suoi amici venissero eventualmente compromessi, le elegie dei Tristia sono prive di destinatari. L’opera genera un senso di monotonia per la ripetitività ossessiva dei temi, tutti legati alla situazione del confinato. Resta tuttavia il singolare documento di un dramma umano, di una lunga infelicità; stupiscono l’infaticabile volontà e l’insopprimibile bisogno del poeta di trasporre letterariamente la sua esperienza personale: Ovidio a Tomi trova nella poesia la sua unica ragione di vita.
Nel medesimo periodo e con i medesimi intenti il poeta compone le 46 elegie, ripartite in 4 libri, delle Epistulae ex Ponto, indirizzate esplicitamente alla moglie e agli amici e rispettose dei topoi della letteratura epistolare.
L’Ibis, poemetto di 322 distici, composto negli anni 11-12 d.C., a imitazione dell’omonimo componimento callimacheo contro Apollonio Rodio, è un elenco di invettive e imprecazioni contro un detrattore non meglio identificato.
Sotto il nome d’Ovidio ci è stato tramandato anche un frammento di 135 versi d’un poema didascalico sulla pesca e sui pesci, intitolato Halieutica, l’ultima fatica del poeta, secondo Plinio il Vecchio.
Non ci sono pervenuti, invece, la tragedia Medea, che ebbe grande successo, il poema epico Gigantomachia, il poema astronomico Fenomeni e i carmi in morte di Augusto e in lode di Tiberio. Sicuramente spuri sono l’elegia Nux, la Consolatio ad Liviam e varie poesie leggere o d’occasione.
Fastorum liber IV
Il progetto originario dei Fasti, poema elegiaco d’argomento mitologico ed erudito in dodici libri dedicato ad Augusto, non fu mai portato a termine. Nel 14 d.C., alla morte di Augusto, Ovidio cominciò a rivedere il poema per farne una nuova edizione da dedicare a Germanico. Colto da morte improvvisa nel 18 d.C., il poeta lasciò incompiuta l’opera di revisione, la quale si interruppe al primo libro che venne pubblicato, postumo, rifatto. I successivi cinque libri furono pubblicati nella redazione primitiva.
Ai sei libri del poema, che vanno da gennaio a giugno, corrispondono la presentazione delle feste, le commemorazioni e le osservazioni astronomiche. Successivamente alla proposizione e all’invocazione a Germanico, l’opera ha inizio con alcuni cenni sull’anno stabilito da Romolo e da Numa e spiega poi i criteri di distinzione in giorni fasti e nefasti. Indi prosegue con analoghe spiegazioni etimologiche del primo mese e, in seguito, anche degli altri cinque. Un episodio particolarmente felice, nel quale Ovidio ritrova la sua vena poetica più genuina, è quello in cui, trattando dei vari animali usati nei sacrifici, spiega perché l’asino sia gradito a Priapo: l’animale, ragliando, aveva impedito al dio di unirsi alla ninfa Lotide, mettendolo così in ridicolo al cospetto degli altri dèi[1]. L’opera è colma di narrazioni mitologiche, le quali traggono ispirazione da svariate occasioni. Grandissima parte hanno poi le descrizioni di festività, riti e usanze nazionali. Sono moltissimi contemporanea. Sulle orme dell’ultimo Properzio, quello delle ‘elegie romane’, Ovidio si impegna nel campo della poesia civile, anche se nei Fasti sembra prevalere soprattutto il modello eziologico degli Aitia di Callimaco. La materia, vastissima e a tratti monotona, attinge a varie fonti antiquarie (Verrio Flacco, Varrone, Livio). Sulla base del debole filo conduttore rappresentato dalla successione cronologica dei giorni, l’autore ci fornisce, tuttavia, preziose notizie erudite.
Il libro IV dei Fasti dedica i 132 versi introduttivi all’invocazione a Venere, come nume tutelare del mese e capostipite della gens Iulia. Ovidio sostiene l’etimologia di Aprile dal greco ἀφρός (spuma del mare), da cui dipende anche il nome greco della dea, contro l’opinione di Varrone, che preferiva l’etimologia popolare da aperire (aprire)[2]. L’encomio di Venere[3] riecheggia l’esordio del De rerum natura di Lucrezio[4], al contrario la vicenda di Attis[5], evocata in riferimento ai riti in onore di Cibele (4 aprile), è trattata con accenti
[1] Fasti I, 391-440.
[2] De lingua latina VI, 33.
[3] Fasti IV, 91-116.
[4] De rerum natura I, 8-9.
[5] Fasti IV, 221-246.
ben diversi da quelli dolenti del carme 63 di Catullo. La ricorrenza delle Ceriali, dedicate a Cerere che insegnò agli uomini l’agricoltura (12 aprile), è l’occasione per dedicare una sorta di epillio al ratto di Proserpina da parte di Plutone, dio degli Inferi[1]. Tuttavia, l’episodio di maggior rilievo ideologico del libro IV è narrato in concomitanza con le feste Parilie, dedicate a Pale protettrice delle greggi, perché in quello stesso giorno (21 aprile) si celebra anche la fondazione di Roma[2]. Ovidio preferisce stornare da Romolo l’accusa di fratricidio, attribuendo al suo compagno Celere la responsabilità della morte di Remo. Ai funerali del giovane ucciso partecipano commossi i genitori adottivi, Faustolo e Acca Larenzia, nonché lo stesso Romolo in lacrime; l’episodio si chiude con la celebrazione del potere universale di Roma e di Augusto, sua guida.
[1] Fasti IV, 417-618.
[2] Fasti IV, 807-862.
prof. A. Lotito
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